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Ricordo del “Cillo”


Le regole del giornalismo impediscono a chi scrive di raccontare i fatti in prima persona. Il cronista deve essere equidistante, freddo ed estraneo a ogni riferimento di tipo personale.

Dovendo riferire della scomparsa di Luciano Vanzan, per tutti il Cillo, ho ottenuto dal direttore il permesso di derogare alla norma di cui sopra e di usare, per una volta, il pronome “io”.


Io, il Cillo, lo conoscevo bene, era uno dei miei più cari amici. Assieme abbiamo attraversato le varie fasi della vita, dall’adolescenza all’età matura in un rapporto di simbiosi che, pur tra qualche contrasto – inevitabile, trattandosi del Cillo –, è continuato fino a che lui, a metà settembre, non ha deciso di andarsene.

Me lo ricordo quand’era poco più di un ragazzino quando giocava a basket nella palestra del patronato. Stava in difesa e menava botte da orbi a chiunque tentasse di fare canestro. A un certo punto della partita, di solito verso la fine, il Cillo partiva dal fondo campo e arrembava verso l’area avversaria con l’incedere di un rinoceronte. Era la sua unica incursione offensiva che noi spettatori, pigiati come sardine contro il muro della palestra, accoglievamo con entusiasmo gridando: “Ecco el Cillo!”

Quando cominciò a lavorare - alla mitica “Pastori e Casanova” di via San Giovanni – regolavamo il nostro tempo libero in base ai suoi turni di lavoro. Se l’orario era “dalle siè alle do”, non c’era problema, la serata era libera; se era “dalle do alle diese”, tiravamo tardi al Gemini fino a fine turno e andavamo ad attenderlo fuori dai cancelli perché, se mancava il Cillo, non valeva neanche la pena di avventurarsi, pigiati in sei nella macchina di Mariano Sanson, a visitare le bettole del circondario.

Poi entrò in ferrovia, diradando la sua presenza tra di noi ma rispettando fedelmente l’appuntamento domenicale con il calcio, fosse per seguire i biancazzurri leoniceni, fosse per trasferirci al Menti per esultare ai gol di Vinicio. In ogni caso, assieme a lui, eravamo sicuri di non correre pericoli per la nostra incolumità. Durante un derby con l’Hellas si superò sgonfiando la furia di un “buteloto” esagitato con una sola frase: “Ma sta zitto, sciocchino!”

Fu un pioniere delle pensioni baby e si ritirò dal lavoro dipendente prima dei quarant’anni per aprire subito un bar e passare dall’altra parte della barricata nell’inatteso ruolo di oste.

Lo fece con un’abilità insospettata trasformando il Centrale in un punto di ritrovo per tutti i ragazzi di allora.

Il Cillo era così, trasversale alle generazioni, ugualmente a suo agio sia con il vecchione che con lo sbarbatello. Con tutti sapeva mettersi immediatamente in sintonia, scambiare un commento, lanciare la battuta.

Non aveva un carattere facile, il Cillo, se ne sono accorti in tanti, finiti al centro del suo mirino magari solo per una parola sbagliata, per una battuta infelice, per apprezzamento poco gradito.

“Io non dimentico e non perdono” sentenziava quando qualcuno tentava di ricomporre un dissidio. E il più delle volte non dimenticava e non perdonava davvero.

Però il Cillo era il Cillo, poteva fare quello che voleva, mandarti in mona o “a defecare” ma alla fine era impossibile non volergli bene perché era intelligente e arguto, generoso e disponibile, inesauribile nel tenere allegra la compagnia, imprevedibile nelle reazioni e proprio per questo fonte di continue sorprese.

E poi, era mio amico.




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